Dark Light

C’è vita dopo un epic fail? Se lo chiede Pietro Minto in questo lungo approfondimento su Link per la tv, e ce lo chiediamo anche noi di Be Unsocial riguardo le scivolate, più o meno importanti, dei brand che entrano in relazione con noi. Ecco il tema di oggi: cosa ci accade quando ci sentiamo delusi? E che cosa serve per perdonare le aziende?

A settembre la casa di moda francese Dior ha lanciato una campagna per Sauvage, una fragranza maschile con tanto di primo piano di Johnny Depp negli annunci stampa. L’ambientazione dello spot (spoiler: ritirato), invece, era un paesaggio desertico, con sonorità native americane e una ragazza vestita di pelle di lupo; in questo contesto Johnny Depp trovava una chitarra elettrica e iniziava a suonarla. Claim: “We are the land”.

Risultato? Una bufera mediatica con contraccolpi ingenti per l’appropriazione della cultura e dell’insensibilità riguardo i nativi americani. L’annuncio è stato ritirato dopo due settimane di diffusione, poiché i gruppi di difesa dei nativi americani hanno spiegato che la società “stava cercando di trarre profitto dal promuovere uno stereotipo dannoso”.

Inizialmente, il marchio di proprietà di LVMH ha difeso il suo approccio, affermando di aver lavorato in realtà a fianco dei gruppi di nativi americani e dicendo di voler cambiare le idee sbagliate sui nativi americani, condividere con accuratezza la storia americana, far acquisire consapevolezza su questo popolo e promuovere la visione degli indigeni del mondo. Tuttavia, il marchio alla fine ha dovuto rilasciare una dichiarazione di scuse e ha ribadito la sua posizione di tolleranza zero sulla discriminazione.

In un periodo storico che vede le persone sui social media super reattive, sta diventando sempre più sottile la linea che divide cliente e brand, tra amore e odio, fiducia e sospetto. A volte basta una parola in più o un’immagine poco felice per suscitare risentimento. Nella stragrande maggioranza, circa l’81% dei consumatori globali afferma che fidarsi di un marchio è un fattore decisivo nelle loro decisioni di acquisto.

Ma con il passaggio al cosiddetto branding delle relazioni – che consiste nell’avere una comunicazione bidirezionale e un dialogo con i propri consumatori – come possono le aziende riconquistare le persone quando hanno sbagliato? Una volta il marketing si basava su una premessa di vendita di un prodotto ai propri consumatori, con una comunicazione a senso unico. Oggi, in particolare con i social media, si tratta della gestione delle relazioni, il che significa che l’obiettivo non è solo quello di vendere un prodotto, ma di stabilire una relazione con gli altri, arrivando a volte anche di co-creare il prodotto con loro.

Sono state condotte ampie ricerche sulla psicologia del perdono, tuttavia sembra esserci ancora troppo poco sui meccanismi lato commerciale e dei brand. In generale, dalla teoria e dalla letteratura psicologica, sappiamo che ci sono tre tipi di perdono:

  1. Perdonare sé stessi, se commettiamo un errore, che ha danneggiato noi in prima battuta, ma che magari ha anche ferito qualcuno, anche solo dal punto di vista emotivo.
  2. Perdonare una situazione su cui non si ha alcun controllo (per esempio un terremoto o un alluvione che blocca le linee ferroviarie; possiamo perdonare più facilmente Trenitalia).
  3. Perdonare gli altri. In questo caso i brand. E spesso risulta il meccanismo più complesso.

Ogni azienda, così come ogni persona, è soggetta a una potenziale trasgressione, nessuno escluso. Tra gli esempi celebri di criticitià serie – da non confondere con epic fail più banali – c’è lo scandalo sulle emissioni Volkswagen e la felpa con la scimmia di H&M. Il perdono è strettamente legato all’odio: quando smettiamo di odiare, allora possiamo perdonare. Anche qui, ci sono tre principali perché che riguardano le persone che odiano i marchi:

  1. Un’esperienza negativa: un dispositivo che non funziona, il manico di una pentola che si rompe subito, una camera d’albergo che non corrisponde a cosa c’era su Booking.
  2. Una rappresentazione irreale: nel caso di immagini non credibili, come modelle troppo magre o famiglie perfette; e così si innesca una sensazione inconscia di esclusione.
  3. Un valore non corrisposto: quando ci sono illeciti aziendali, o in generale davanti a comportamenti razzisti, immorali e non etici come la fuoriuscita di petrolio in mare.

E noi utenti, online, come ci comportiamo di conseguenza? Che strategie adottiamo?

  1. Strategia di cambiamento: abbandono quel prodotto, e ne scelto un altro
  2. Strategia di conflitto: pubblico commenti negativi e alimento la cattiva reputazione
  3. Strategia di perdono: provo a dare una seconda possiblità al brand

Per un’azienda che ci ha fatto provare un’esperienza negativa – una pizza bruciata che non siamo riusciti a finire – è più facile venir perdonato rispetto a un brand che va contro i nostri valori morali e sociali. Questa riflessione ovvia permette di classificare il livello di criticità e come attuare la teoria della giustizia per far sì che le persone perdonino gli errori. Anche in questo caso, possiamo riassumere la teoria della giustizia e rileggerla in relazione al perdono.

  1. Giustizia distributiva: un brand sostituisce o ripara per noi un prodotto senza problemi
  2. Giustizia procedurale: un brand gestisce un reclamo con procedure fluide e veloci
  3. Giustizia relazionale: un brand si relaziona a noi ascoltandoci e comprendendoci

Riassumendo: chiedersi sempre perché la persona è risentita (esperienza negativa, immagine irreale o valore non corrisposto), capire come si sta comportando (cambia brand, diffama il brand o lo può perdonare) e che cosa ritiene giusto per risanare il rapporto (una sostituzione, un reso che non crei altri problemi, una relazione più autentica).

Oltre alle scuse, ovviamente.

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