Dark Light

Innanzitutto, una premessa: non torneremo alla normalità. O meglio, non torneremo alla normalità così come la conoscevamo fino a febbraio. E non è solo una questione legata al cambio dello scenario imposto dall’emergenza sanitaria. Forse saremo proprio noi a non voler tornare come prima. Ma andiamo con ordine…

A oggi, la maggior parte degli esperti sembra concordare sul fatto che il Coronavirus rimarrà in circolo almeno per tutto quest’anno e in tutto il mondo. Ciò che distingue questa crisi da molte altre è che non esiste, al momento, una strategia di uscita sicura e definitiva. Terremoti e alluvioni, per quanto devastanti, sono catastrofi limitate nel tempo e nello spazio, ma con il virus le regole del gioco cambiano e impauriscono.

Tutti ci stiamo chiedendo “quando finirà”, ma non è la domanda giusta. La domanda giusta è “come continueremo?”. Noi di Be Unsocial, come sapete, abbiamo provato a rivolgere la stessa questione a 44 professionisti, tra esperti di comunicazione, narratori e umanisti, raccogliendo le loro riflessioni nell’ebook gratuito Back to the Future. Ed è proprio da qui che partiamo oggi per provare a dare una definizione del dopo.

L’aumento delle aspettative

L’incertezza dell’appiattimento della curva e l’altalenante calo dei decessi non fa che ampliare la natura della crisi e, finché non ci sentiremo sicuri con un vaccino (o con l’immunità di gregge, a seconda dei punti di vista), sarà difficile vivere serenamente la nuova normalità.

Nel frattempo, in attesa dell’ufficialità della Fase2 in Italia, stiamo diventando ancora più impazienti; un’impazienza elettrizzante e frenetica, come quando siamo in attesa del lieto fine di un film. Passato l’interesse iniziale per la crisi e i bollettini, l’attenzione si sta spostando verso le riaperture, dimenticando che in ogni caso la crisi non finirà, e anzi, dal punto di vista economico sopravviverà per decenni dietro le quinte. Questa pandemia, infatti, ha messo in luce la grande possibilità di cambiamento guidato da uno spirito più collettivo, ma ha anche evidenziato il probabile risultato che la disuguaglianza strutturale esistente aumenterà. Per non parlare delle minoranze etniche, colpite in modo sproporzionato dal virus.

Il tema del trauma collettivo

Per capire perché questa inedita frenesia sta prendendo piede a livello sociale in Italia, dobbiamo prima capire come la pandemia sia a tutti gli effetti un trauma collettivo in corso. Come scrive il sociologo statunitense Jeffrey C. Alexander, il trauma collettivo non è l’evento in sé, ma è quanto un evento sconvolge l’identità sociale di una popolazione e, a sua volta, quanto sconvolge il senso di sicurezza di ciascun individuo all’interno della società.

Al contempo, chiusure dei Paesi, controlli ai cittadini e licenziamenti dei lavoratori hanno fatto sfumare il senso di coesione globale. In questo momento storico, l’essere parte di ​​un’economia globalizzata, diventa sempre meno rilevante; siamo concentrati sul locale e sulla sola provincia, regione e nazione, con la quale condividiamo l’evento. Inoltre, come scrive lo studioso, lo stato traumatico può essere attribuito a fenomeni reali o immaginari, dunque non a causa dell’effettiva nocività, ma perché si ritiene che questi fenomeni abbiano influenzato bruscamente e dannosamente la nostra identità collettiva (di italiani, aggiungiamo noi).

Lo sviluppo della capacità di reazione

Una delle parole più abusate in queste settimane è stata, senza ombra di dubbio, resilienza – che ci ricorda la mentalità necessaria per resistedere e arrivare al dopo. I dizionari la definiscono sia come tenacità, sia come “la capacità di riprendersi rapidamente dalle difficoltà”. Ma fa parte del linguaggio degli studiosi anche un’altra sfumatura: la resilienza ecologica, intesa come la capacità di un sistema di affrontare il cambiamento e continuare a svilupparsi.

In Deep Adaptation, il professor Jem Bendell (nel link troverete anche la traduzione in italiano curata da Emanuele Coluccia e Pierfilippo Pierucci) definisce la resilienza con il concetto di abbandono, inteso come il non trattenere, il lasciar andare tutte quelle cose, quei comportamenti e quelle credenze che potrebbero peggiorare le cose. Come è facile immaginare, la rinuncia avviene innanzitutto a livello individuale – mentre familiarizzano lentamente con le nuove routine – e solo dopo si estende su scala sociale. Prima accettiamo di perdere la nostra libertà personale, poi accettiamo che sia tutta la popolazione; prima accettiamo di essere controllati, poi accettiamo che lo siano tutti i nostri concittadini; e così via.

L’inizio del nuovo status quo

Nel libro Capitalist Realism, il teorico culturale Mark Fisher descrive come ormai è diventato impossibile per noi immaginare di vivere sotto qualsiasi sistema diverso dal capitalismo. Eppure, il Coronavirus sta cambiando anche questa percezione, e lascia la porta aperta a una visione più socialista, a un cambiamento su larga scala per il bene sociale e soprattutto ad approcci umanistici alla politica, all’economia e alla comunicazione digitale.

A tre mesi dal primo caso segnalato a Wuhan, la Cina come sappiamo è nella fase finale della curva pandemica. Come racconta il The Guardian, i controlli sanitari rappresentano per loro un nuovo inconveniente quotidiano, tutti indossano maschere già dal primo mattino e la movida è ancora in gran parte in live streaming. Ma adesso che gli effetti del rallentamento economico devono ancora essere avvertiti, l’emozione prevalentemente è il sollievo. E un po’, ammettiamolo, abbiamo iniziato a provarlo anche noi, con tutte le cautele del caso.

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