Dark Light

un approfondimento di Gabriele Sebastiani
[prima parte: La memoria ai tempi dei social]

Che dietro a ogni nostra attività sui social si nasconda qualcosa di grande, ambiguo, difficilmente individuabile anche alzando lo sguardo dalle nostre bacheche, lo abbiamo compreso per davvero il 17 marzo 2018, quando New York Times e Guardian hanno dato il via all’ormai noto scandalo di Cambridge Analytica.

Come appropriarsi facilmente dei dati di 50 milioni di utenti usando Facebook? Nulla di più facile: basta creare un’app, chiamarla “thisisyourdigitallife”, permettere di scaricarla gratuitamente, di accedervi col proprio profilo social e di divertirsi con test che indovina tratti della personalità. Concedendo poi a una società terza i dati delle 270mila persone che hanno usato l’app, permettendo di sondare la vita digitale di tutti i soggetti, nonché di tutti i loro contatti, ecco che la fuga di dati è presto servita. Colpa di una “falla” di Facebook, come è stata definita dallo stesso social dopo che la frittata era ormai fatta.

Ma a che possono servire i like, i commenti e le foto di migliaia, forse milioni di profili? Le risposte sono molteplici: Facebook, e questa non è certo una novità, lucra sulla vendita e l’utilizzo di informazioni che i propri utenti creano ogni giorno, reagendo ai contenuti che appaiono sulla home. Noi passiamo il tempo scrollando felici e spesso ignari, le aziende di marketing studiano le nostre preferenze e creano campagne, pubblicità e contenuti confezionati appositamente per noi. Niente di nuovo, insomma.

Eppure ci si stupì molto quando venne fuori che Aleksandr Kogan, fondatore di “thisisyourdigitallife” si fece pagare da Cambridge Analytica per i dati raccolti dalla sua “innocente” applicazione, ufficiosamente per scopi scientifici. Fondata dall’ultraconservatore britannico Robert Mercer, Cambridge Analytica, tramite Kogan, aveva obiettivi più ambiziosi e inquietanti per i quali bramava quella valanga di informazioni: far diventare realtà la Brexit, ad esempio, oltre a influire sulle elezioni presidenziali americane del novembre 2016, spingendo in alto Donald Trump contro la favoritissima, per i più, Hillary Clinton. Cambridge Analytica giocò infatti una parte cruciale nella campagna elettorale del Tycoon: basti pensare che Steve Bannon, lo spin doctor della campagna di Trump, per un periodo di tempo fu presidente della società. Sappiamo tutti com’è andata a finire.

Il 17 marzo 2018 non è stata però la prima volta che nubi di tempesta si sono addensate attorno a Cambridge Analytica: lo stesso Guardian ne aveva scritto poco meno di un anno prima, ritenendo sospetto il modo di agire della società, specie nell’ambito delle elezioni americane. In tanti ritennero esagerate le ipotesi del quotidiano inglese: non c’erano prove che attestassero il potere e l’influenza dell’azienda di Mercer. Almeno finché Christopher Wylie e altre fonti interne a Cambridge Analytica non cominciarono a parlare.

Fu il New York Times a sostenere che C.A. operò in Ucraina e Russia – Paese coinvolto in diversi e ambigui modi nella vittoria di Trump alle Presidenziali – e che Julian Assange ricevette una richiesta di aiuto dal CEO di Cambridge Analytica, Alexander Nix, affinché lo aiutasse ad accedere alle mail private dell’ex first lady di casa Clinton. Il Guardian nel frattempo lanciò un missile contro Facebook, reo di non aver fatto abbastanza dopo una prima segnalazione di violazione dell’uso dei dati degli utenti, risalente al 2016, troppo tempo prima dello scandalo per rendere credibile la sorpresa di Zuckerberg e colleghi una volta emerso lo scandalo. Lo stesso Christopher Wylie, il whistleblower più in vista nell’intera vicenda, scrisse una lettera per chiedere la cancellazione dei dati usati da “thisisyourdigitallife”: non solo il suo appello non venne ascoltato, ma il suo account, dopo le rivelazioni che portarono ai titoloni di Guardian e New York Times, venne sospeso da Facebook.

Se pensiamo che dati come quelli “trafugati” da Cambridge Analytica vengono accumulati su ognuno di noi, istante dopo istante, si intravede quanto importante sia la questione anche per le tracce digitali che ognuno di noi lascia sul web, tasselli che formano la nostra memoria online. La profilazione su cui Facebook ha eretto un impero di guadagni miliardari non ha solo implicazioni economiche, ma anche sociali ed etiche. Quanto sanno, quanto è corretto che sappiano di noi le aziende che possono usufruire delle nostre informazioni via social? La privacy è già sepolta da un pezzo, come proclamato da Mark Zuckerberg nel 2010. Per lui, la pratica sociale della riservatezza appartiene a un tempo ormai passato: i social network, in effetti, ci hanno preso in contropiede dando l’opportunità, a tutti, di mettere sotto i riflettori la propria vita. Ci siamo leccati i baffi, ci siamo iscritti, abbiamo condiviso: quello che non abbiamo fatto, è stato leggere le condizioni d’uso prima di loggarci per la prima volta.

Della mole gigantesca di memoria cibernetica che ci riguarda, probabilmente oggi vorremmo che una buona parte sparisse con uno schiocco di dita. Più che preoccuparci di ciò che ormai viaggia per conto proprio, dovremmo cominciare ad avvicinarci a modi migliori, più consapevoli di condurre un’esistenza digitale: di scorie sul web, continueremo comunque a crearne, persone che non conosciamo continueranno ad archiviarne, al di là di Cambridge Analytica e Facebook. Come suggerito dall’avvocato torinese Carlo Blengino, dal momento che la digitalizzazione tocca anche la nostra identità e il nostro modo di “essere” nel XIX secolo, è bene che cominciamo a preoccuparci e a reclamare il diritto, per ora poco riconosciuto e invocato, alla protezione dei dati. La partita chiaramente si gioca anche sulle nostre abitudini di navigazione e sul fatto che, almeno agli albori, il web avrebbe dovuto essere un territorio libero, che permettesse all’uomo di espandere la propria conoscenza e i propri contatti potenzialmente all’infinito, non il luogo della mercificazione di ogni nostra singola azione, com’è diventato adesso. Sta a noi cambiare rotta: qualcuno ci sta già provando.

Incontro Pietro Jarre alla sede di eMemory, startup che ha creato dopo aver lasciato la sua precedente professione: il suo studio, in uno dei corsi più belli della collina di Torino, dà su una villa ostentatamente liberty che si erige su un declivio scosceso. Pietro ha sessant’anni, tutti i collaboratori e co-fondatori della startup ne hanno meno di trenta o giù di lì; ha voluto coinvolgere i più giovani per dar loro una chance di cambiare le cose, lavorando su un progetto e un sogno di cui sono anche i primi sostenitori. L’obiettivo non è quello di fare i milioni. Se verranno tanto meglio, ma prima di tutto serve risvegliare la gente dal torpore con cui oggi usa e percepisce il web.

dal sito di eMemory

Proprio per questo, Pietro ha dato vita, insieme al torinese Federico Bottino, a Sloweb: un movimento, un’associazione non profit che vuole responsabilizzare l’approccio al web di una maggioranza di utenti che, per ora, lo usa con poco criterio e con molti rischi. Una battaglia che si prospetta lunga ed estenuante, eppure imprescindibile per come stanno andando le cose nel mondo. Saper usare consapevolmente il web oggi è un dovere sociale, per non rendere vani i pochi diritti che ci sono riconosciuti in ambito digitale. Specie quando un domani non tanto lontano dovremo per forza di cose fare i conti con la nostra eredità online. Le nostre informazioni sono effettivamente un patrimonio da valorizzare meglio, da non lasciare in mani sbagliate, da riconoscere come tale.

Pietro ha voluto dar vita a una startup che potesse rappresentare l’alternativa al cannibalismo di dati che oggi la fa da padrone: eMemory è una piattaforma digitale in cui il dato viene valorizzato come ricordo, in cui l’archiviazione è un mettere in ordine, selezionare e tenere ciò che conta, in cui la profilazione non esiste. Gli utenti possono scrivere, caricare foto, video o anche solo appunti su cui possono lavorare, investire del tempo, ragionare. Così, secondo chi investe su questa piattaforma, riusciremo a inquadrare in una giusta prospettiva la gestione delle nostre informazioni sul web, tanto che l’archivio di eMemory viene definito una “cassaforte” digitale, perché conserva qualcosa di potenzialmente molto prezioso. Incuriosito dal vessillo così controtendenza di questa realtà, ho chiesto a Pietro Jarre in che modo la gente possa tornare a ridimensionare la smania di condividere tutto in una dimensione privata e “recintata” come la sua startup.

“I social sono nati con lo scopo di connettere le persone, dando loro l’illusione che i contatti che stavano creando fossero davvero relazioni umane”, mi spiega. “Per farci connettere, i social stimolano l’ego, ci offrono la consolazione di cui abbiamo bisogno in un mondo sempre più frammentato. L’obiettivo di eMemory è diverso: ci sono possibilità di condivisione dei contenuti che si caricano sulla piattaforma, ma il nostro non è un social. Facebook, Twitter e Instagram tendono a spezzettare la nostra vita, dando l’importanza a un presente continuo. Dove sei? Cosa fai? Qualunque dato diventa importante, verrà registrato in totale disordine. Ciò rende molto difficile costruire una storia di sé”.

L’utente medio è ormai abituato ad accumulare tanti, troppi pezzettini della propria vita, anche quelli di cui potrebbe tranquillamente fare a meno. Ci si ferma alla fase dell’accumulo e manca quella, fondamentale, della selezione, dell’elaborazione del ricordo. Su eMemory, almeno negli intenti, l’approccio è proprio opposto: dare più rilevanza a una storia di sé, una narrazione che abbia un senso perché i dati su cui si erige hanno rilievo nella nostra vita. “Le informazioni su di noi servono come un esempio, per poi guardarsi indietro, capire come ci siamo comportati in passato e calcolare rischi, opportunità. Lo si fa anche con la vita degli altri. Sui social, almeno fino ad oggi, non c’è questa ricerca dell’esemplarità della storia altrui. Anzi, non ci sono proprio storie. Questo perché non esiste una spiegazione, un perché di ciò che accumuliamo sui nostri profili. Si perde la propria indipendenza di pensiero, si agisce soltanto seguendo una sensazione, uno stimolo”. Creando un account su eMemory, precisa Jarre, è come se ci si prendesse l’impegno a creare un personale progetto di memoria, per rendere “tangibile la propria scia, il proprio percorso” in un mondo in cui ogni informazione è invece diventata volatile.

Secondo Jarre, un tipo di condivisione senza selezione, in cui si dà risalto alla minima inezia, distrugge, moltiplica e sfaccetta la nostra immagine in tante particelle che non riescono a restituire un’idea concreta di noi. Il “profilo” è la banalizzazione della nostra immagine, una banalizzazione che fa le fortune dei social come Facebook. eMemory, e questo è un aspetto di grande rilievo, si impegna invece a non approfittare della disseminazione dell’io degli utenti: Pietro e i suoi colleghi non vogliono profilare gli utenti, sapendo benissimo che così facendo gli introiti per crescere si riducono drasticamente: “Non sappiamo nemmeno se chi usa la piattaforma sia maschio o femmina”, mi spiega orgoglioso. “La nostra è una scommessa”.

Jarre non nasconde le opportunità che si sarebbero potute schiudere da un uso migliore della profilazione: “Il problema più grande? È stata utilizzata a scopo di vendita e di guadagno, non per supplire a bisogni primari”, mi spiega. Secondo lui se il web riuscisse a fornirci e a proporci soprattutto ciò di cui abbiamo veramente bisogno, la profilazione potrebbe diventare un pro e non un contro. Se io ho bisogno di medicine e le pubblicità mi propongono quelle che fanno al caso mio, potrò comprarle, averle e non spendere i miei soldi in altro. “Ma tutto ciò va contro il sistema capitalistico, no? Tanto più si spreca, tanto più guadagno c’è”, commenta Pietro. “Oggi l’Occidente si trova a un bivio importante: dobbiamo chiederci infatti dove vogliamo andare, come vogliamo usare questa tecnologia”.

Legato per vie neanche tanto traverse a questo meccanismo, c’è il tema della privacy che, per quanto disfattista sia Zuckerberg, ancora non sembra esser morta, forse soltanto messa in secondo piano. Per stimolare un’attenzione più matura all’uso del web, accedendo alla piattaforma grande risalto e importanza vengono concessi alla lettura e alla comprensione dei termini di utilizzo dei propri dati, spesso saltati a piè pari dagli utenti perché interminabili e cavillosi: così facendo, però, non sappiamo esattamente a ciò che stiamo rinunciando per accedere a un servizio. La questione sta molto a cuore a Pietro e colleghi tanto che hanno deciso, dopo aver permesso agli utenti di leggere come funziona la piattaforma, di lanciare un breve test che dirà se e quanto si è compreso ciò che abbiamo appena sottoscritto. “La nostra idea è di lasciare tutto il tempo per leggere e approvare i nostri termini di utilizzo: abbiamo disegnato una poltrona con un timer di novecentonovantanove secondi, proprio per far capire all’utente di fermarsi un attimo, il tempo per capire a cosa sta aderendo c’è”.

eMemory propone quindi un modello non-social, diametralmente opposto a quello più diffuso: c’è la condivisione, ma tenta di non essere compulsiva. C’è una fidelizzazione degli utenti, ma ciò non crea dipendenza perché la piattaforma si regge su un uso moderato del web, tanto da auto-definirsi un luogo Internet Addiction Free. “L’importante è non essere talebani con l’idea della memoria online”, ammonisce Jarre. “L’oblio totale non è positivo, ma nemmeno la memoria totale. Vogliamo puntare a una fascia intermedia di conservazione del ricordo, quella che provoca un inevitabile benessere”. Ma come rendere appetibile un social non-social a chi è ormai assuefatto dallo scroll infinito di Instagram o Facebook?

“La chiave è essere d’esempio, far vedere a chi cerca un’alternativa che eMemory è un esperimento interessante. È molto difficile andare controcorrente, ma pensa a cosa è successo nel Sessantotto: le prime avvisaglie della rivoluzione sono cominciate a inizio anni Sessanta”.

La grande trovata dei social è stata quella di puntare, per guadagnare, sulla perdita di tempo, sull’intrattenersi con le minuzie, con ciò che non avrebbe senso valorizzare al di fuori dell’estemporaneità. Da qui, l’abbassamento di dignità delle informazioni che dovrebbero contare va di pari passo all’innalzamento del pulviscolo di chiacchiere a sapere: l’utente medio perde allora la capacità di riconoscere la qualità dei contenuti che si trova davanti, passando ore e ore a scorrere le home dei social. Condivide, reagisce e commenta il nulla, stimolando gli altri a far lo stesso. Le implicazioni di tutto ciò sono importanti anche per i modi in cui, al giorno d’oggi, viene veicolata la conoscenza: non è un caso che su Facebook, sempre più spesso, in molti si trovino a confondere bufale e notizie palesemente false per informazioni veritiere. E l’incapacità di documentarsi per verificare la realtà contagia persino giornalisti e politici di dare per vere diverse bufale.

Diventa necessaria allora una vera e propria ri-educazione e alla comprensione all’uso del web, all’interpretazione dello strumento che sempre più sarà imprescindibile nelle nostre vite: per evitare che tutte le informazioni vengano svilite diventando sterili e vuote, Sloweb sta cercando di promuovere un uso ecologico dei dati in rete, una seria valutazione di ciò che decidiamo di condividere, una scrematura. Producendo di meno ma meglio, la rete sarà così sempre meno inquinata da dati spazzatura. Il contenuto andrebbe perciò visto in un’ottica futuribile, tramandabile, riciclabile: se proprio voglio caricare online una mia foto, meglio che sia veramente essenziale, che mi permetta, fra quarant’anni, di mostrarla ad eventuali nipotini raccontando aneddoti e ricordi a cui sono veramente legato. Migliora la qualità dell’informazione, migliora la memoria digitale che lascerò in eredità.

Un punto essenziale anche per la filosofia di eMemory: invece di proporre di nuovo un’agora esibizionistica di dati senza arte né parte, Pietro e i suoi colleghi puntano su profili che riprendano l’idea del focolaio casalingo: siediti con me, ti voglio raccontare una storia. La mia storia. Un po’ come l’album di fotografie del matrimonio dei nonni, che va assaporato e trova valore proprio perché le foto ingiallite riprendono vita con la parola di chi si trovava di fronte all’obiettivo, rievocando – per davvero – i perché e i come quel ricordo sia stato generato. “La speranza è di educare i cittadini a essere indipendenti, consapevoli delle scelte che fanno perché conoscono la propria storia”, mi spiega Pietro. “Dobbiamo insegnare l’importanza di tramandare conoscenza, dovremmo dare un premio a chi lo fa. Serve ritrovare la capacità di ascoltare, serve tornare a un concetto di condivisione diversa […] Stiamo perdendo l’abitudine millenaria al racconto, un meccanismo che permetteva agli anziani di esercitare la propria mente rievocando storie e ai più giovani di ascoltare e trarre insegnamenti da ciò che stavano ascoltando”, prosegue Jarre. “Ora i nonni o i genitori sono diventati muti. Invece di raccontare un aneddoto al nipotino, passano il cellulare così che si diverta da solo, mentre lui stesso verrà intrattenuto dal proprio smartphone, il ciuccio per adulti”. Lo scenario sembra suggerire una vera e propria epidemia di demenza digitale: i precedenti cardini sociali per cui il giovane impara dall’anziano vengono spazzati completamente via.

Entrambe le categorie hanno il loro bel daffare a esaltare le potenzialità del ricordo. Tutti dimentichiamo tutto e, a dire il vero, forse la cosa non ci preoccupa più di tanto, perché ciò che non ricordiamo è sempre a portata di click. In eMemory da tempo si osserva con attenzione come la tecnologia, il digitale e il web siano diventati il magazzino della nostra memoria, mentre la nostra capacità di ricordare appassisce sempre più. Se non ci fosse Facebook a ricordarci il compleanno dei nostri amici ci passerebbe di mente persino di far loro gli auguri. “Quando è capitato il caos di Piazza San Carlo, a Torino, sai quanti ragazzini allontanatisi dai genitori non sapevano il loro numero di telefono o l’indirizzo di casa perché avevano perso il cellulare?”, mi chiede. “È ormai attestato che il digitale intacchi davvero la nostra memoria. Ok, il nostro cervello è fatto per dimenticare, ma non tutto. I nostri telefoni diventano davvero delle deleghe della memoria e noi, non esercitando il meccanismo del ricordo, siamo sempre più fragili. Non è un caso che dall’avvento del mondo mobile i tassi di diffusione di Alzheimer siano in aumento”. E in effetti, alla Giornata Mondiale dell’Alzheimer del 2017, le persone affette dal morbo in Italia erano 600mila, il 4% degli over 65. I numeri, già altissimi in uno dei Paesi più anziani del Pianeta, si fanno ancora più minacciosi in ottica futura. Si stima un aumento del 50% dei casi entro i prossimi vent’anni, col raddoppio del numero delle persone affette da Alzheimer entro il 2050.

Visto il preoccupante dilagare di questa smemoratezza 2.0, per Pietro e i suoi colleghi è importante lasciare un’impronta più concreta della sola piattaforma. Il progetto della startup si basa sui gusti, le richieste ed è persino finanziata dagli utenti che ne usufruiscono; così eMemory, a differenza dei social network, si plasma per rispondere alle esigenze di ricordo delle persone che ne fanno a tutti gli effetti parte. Ma c’è di più: i soldi investiti nella startup di Pietro, oltre ad essere impiegati per migliorie del servizio, vengono devoluti a progetti per valorizzare la ricerca sulla memoria. Investi sulla tua eredità digitale e nel frattempo dai un contributo per porre argini alla perdita della facoltà al ricordo: “Così facendo, è un po’ come se gli utenti ricevessero ciò che hanno dato”, conclude Pietro.

Non ho mai nascosto il mio punto di vista sull’argomento: il digitale e la rete sono ottimi strumenti in potenza, il cui migliore o peggiore utilizzo dipende in buona percentuale da noi.

C’è chi concorda con me, chi contesta questo punto di vista, chi invece ha ammesso di non aver mai inquadrato i social e il web da una prospettiva simile. Tutte le persone con cui ne ho parlato hanno però riconosciuto di ricordare meno o comunque peggio da quando nelle nostre mani è apparso lo smartphone, ormai un prolungamento del nostro corpo e del nostro cervello. Se i numeri di telefono non sono sul cellulare noi non sapremmo nemmeno chi chiamare in caso di bisogno.

È chiaro che l’argine allo smarrimento totale della nostra facoltà di ricordare debba essere eretto dal basso: non possiamo aspettarci che chi produce smartphone ci imponga di usarli solo in caso di necessità o chi manovra i social restringa l’accesso solo a poche ore al giorno. Dove starebbe il guadagno in tutto ciò? Il ragionamento è simile agli avvertimenti sui rischi per la salute del fumo sui pacchetti di sigarette, o i “Bevi responsabilmente” che seguono le pubblicità di super-alcolici: noi ti avvisiamo dei rischi, sta poi a te decidere se fumare, bere e giocare, sta a te decidere quanto e come farlo. Come ha detto Pietro Jarre, una facile soluzione è nella moderazione: è estremo, al giorno d’oggi, vivere da luddisti, in un modo non digitale. La chiave è rieducare le persone a un uso meno bulimico dei social e del web, sempre più spesso pozzi in cui sfogare le proprie angosce e insoddisfazioni, in cui la riflessione e la pacatezza sono stati spazzati via da un turbine di urla vuote e a scadenza ravvicinata.

Il grande problema, al momento, è cercare di scuotere chi non si è ancora reso conto della negatività dell’uso scalmanato dei social e del web: dice bene Pietro Jarre, quando riconosce, parlando del movimento d’opinione per una rete consapevole, che il punto di svolta sta nel convincere un’élite più recettiva a comprendere il messaggio, per poi “diffondere il verbo” al resto degli utenti ancora poco disincantati. Un movimento dall’alto verso il basso per aumentare la consapevolezza che sia necessario cambiare rotta, poi dal basso verso l’alto per far sì che ciò accada concretamente.

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