Dark Light

In queste settimane di lockdown, l’aumento esponenziale della produzione di live streaming e webinar è ben evidente, basta scorrere i feed di Facebook e Instagram. Una quantità gigantesca e continua di video in diretta, a tutte le ore e su ogni argomento, dalla piccola libreria di quartiere che organizza una presentazione online ai big italiani che dialogano con Marco Montemagno. Ma ha sempre senso produrre così tanto contenuto solo perché “non costa niente”, “guadagno in visibilità” o “lo fanno tutti”? In un’epoca storica dove la sostenibilità è un valore imprescindibile per le persone e per i brand, perché non abbiamo ancora pensato di applicarlo anche ai contenuti che mettiamo in Rete?

Avevamo già parlato della sindrome da accumulo digitale.

Prendete il vostro smartphone, aprite la gallery di foto scattate: quante foto varrebbe davvero la pena conservare? E quante invece si potrebbero mettere nel cestino, magari scattate in sequenza per trovare la giusta angolazione e mai selezionate? Lo stesso discorso vale per le app sullo smartphone e i file dentro il nostro computer e nei nostri hard disk esterni: ebook e documenti accumulati negli anni; presentazioni prodotte in varie versioni (def, def1, defdef); applicazioni desuete. Come per i vestiti, dovremmo imparare a togliere quello che “non ci va più bene”, “è sorpassato” oppure quello che “potrebbe tornarmi utile un domani”, ma sono passati già dieci anni. Forse è tempo di pulizie di primavera. Ricordate il programma Ma come ti vesti? e i tre bidoni per buttare, reinventare o riciclare i propri capi? Ecco, perché non ragionare così anche con il digitale?

Il tema della media ecology è affascinante. Lua De Biase, partendo dalla defizione data dal professor Lance Strate della Fordham University, riassume così la disciplina:

La ricerca sull’ecologia dei media è interessata a identificare le differenze tra i media in quanto ciascuno di essi influisce in modo particolare sul contenuto, sull’uso che se ne fa, generando conseguenze specifiche sulla comunicazione, la consapevolezza e la cultura.

Dunque, se partiamo dal presupposto che la Rete è un territorio, allora dobbiamo capire come valorizzarlo, rispettarlo e preservarlo. Come ricorda anche Paolo Granata, professore all’Università di Bologna e membro della Media Ecology Association:

Adoperare un approccio ecologico alla comprensione dei media significa avvicinarsi ad essi sulla base di una visione sistemica, ovvero concepire i media come un vero e proprio ecosistema unitario e coerente, seppur complesso, dinamico e aperto.

Proviamo a rileggere i principali punti dei più diffusi manifesti della sostenibilità ambientale in chiave di produzione e consumo di contenuti nel territorio digitale.

  1. Scegliere con cura solo materie prime di qualità
  2. Produrre la quantità che è davvero necessaria
  3. Consumare con consapevolezza le risorse
  4. Utilizzare quanto abbiamo prodotto o esiste già
  5. Non inquinare con fake news e violenza
  6. Evitare sprechi e accumuli inutili di contenuti
  7. Badare ai rifiuti, riciclarli o differenziarli
  8. Favorire la biodiversità di punti di vista
  9. Rispettare i ritmi delle stagioni senza forzature
  10. Educare i giovani alla sostenibilità digitale

È soprattutto una questione di sapere “cosa” mettiamo online, certo, ma anche “come”. Ne ha scritto bene l’agenzia digitale 4beards, spiegando che:

Ogni clic contribuisce all’inquinamento ambientale, già, anche un’azione apparentemente così innocua incide in maniera preponderante con un suo impatto. Ogni mossa eseguita online è un’azione che influenza il mondo esterno, in un modo o nell’altro. Come? Attraverso l’energia elettrica.

La Commissione delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (Wced) con il rapporto Brundtland nel 1987 definisce lo sviluppo sostenibile come lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri. Dunque, quando produciamo contenuti in Rete, stiamo pensando alle future generazioni noi? Oppure ragioniamo solo a breve e immediato termine? C’è da riflettere sulla durata dei contenuti, proprio come riflettiamo sulla durata di una cannuccia o una bottiglietta di plastica.

E torniamo su cosa scrive De Biase:

Il benessere individuale discende dalla qualità dell’ambiente e la qualità del gesto individuale è importante per il bene dell’ambiente nel quale si convive.

Sull’astronave Terra non ci sono passeggeri: siamo tutti equipaggio, dicevano i fondatori dell’ecologia dei media. Tutti possono dare una mano: anche i retweet possono inquinare, anche i like, anche i post; imparare a pensare le conseguenze è una conquista da perseguire assolutamente. Nell’ecologia dei media il bene dell’individuo e il bene della comunità convergono.

Il problema dell’inquinamento ha a che fare non solo con l’aria che respiriamo con i polmoni, ma anche quella che assorbiamo sui social media. Emanuela Zaccone su Digitalic lo definisce social inquinamento e propone due possibilità di “filtraggio” fai-da-te:

Ci sono due strade possibili: definire dei gruppi di amici ristretti e filtrare la timeline visualizzando solo i loro contenuti (soluzione gestibile solo se avete una rete ragionevolmente limitata di contatti), oppure andare sul profilo dell’amico in questione ed eliminare il flag su “Segui” (lo trovate sulla cover foto in basso).

È un primo passo, ma può iniziare a proteggerci. A nostra volta dovremmo essere bravi a capire quando è il caso di produrre e quando no (a costo di rinunciare a un surplus di keyword, follower, referral, like). Hamilton Santià già sei anni fa scriveva:

La tanto sospirata ecologia dei social network passa anche dal non dire sempre tutto quello che ci passa per la testa.

E vale anche per i brand, soprattutto chi tra questi ha fatto della sostenibilità il punto cardine dei suoi valori. Insomma, non può più riguardare solo lo spreco di energia, packaging e acqua per creare il prodotto, ma dovrebbe riguardare anche il modo in cui si produce comunicazione digitale. Ha ancora senso produrre così tanti contenuti digitali solo perché “mica sto stampando carta” e “sul digitale c’è tutto lo spazio che vogliamo”? Insomma, quanto è davvero sostenibile il modo in cui comunichiamo? Probabilmente, l’obiettivo numero 12 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite – ovvero “garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo” – dovrebbe ampliare il discorso anche alla Rete, ormai vitale, e non limitarsi a acqua, energia e cibo. Come ci ricordano:

Il consumo e la produzione sostenibile puntano a “fare di più e meglio con meno” aumentando i benefici in termini di benessere […] migliorando così la qualità della vita.

Buone pratiche arrivano, per fortuna, dal mondo del giornalismo; pensiamo al grande lavoro de Il Post in questi giorni di emergenza sanitaria, oppure a quello portato avanti con grande cura da Slow News – dove ciò che è online è stato scritto “prendendo il tempo che ci voleva ed è uscito quando era pronto.” E buone pratiche arrivano anche dal mondo della progettazione, con l’ethical design.

Nel post Coronavirus, sarà la nuova normalità?

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