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Per alcuni adattarsi bruscamente al lavoro a distanza non è stato facile, e hanno dovuto affrontare non poche difficoltà, dalla precarietà della linea wifi al silenziamento delle urla dei bimbi intorno. Anche i dati di Google Trend sembrano rivelare un picco nelle ricerche su “smartworking” e “lavoro da casa” proprio in concomitanza delle misure di blocco, conferma che non tutti erano preparati – soprattutto a gestire i confini tra lavoro e tempo libero.

Dave Cook, antropologo all’University College di Londra e autore di The freedom trap: digital nomads and the use of disciplining practices to manage work/leisure boundaries, è uno degli studiosi che più si è occupato dal tema, anche prima del Coronavirus. Ha trascorso ben quattro anni a studiare la realtà di vita quotidiana per oltre 50 nomadi digitali (tra l’altro, sul tema, vi consigliamo anche il podcast di Cristina Cassese, Nomadismo professionale).

Questo il campo di ricerca di Cook.

L’antropologo ha studiato le persone classificate come nomadi digitali, una tipologia di persona che viaggia mentre lavora – relativamente nuova per il panorama globale, e di cui si è iniziato a parlare solo intorno al 2015, ovvero quando i giornalisti hanno intercettato la tendenza. È interessante rileggere il tema del nomadismo digitale in questo periodo perché si tratta di professionisti che vivono un costante stato di isolamento: sono spesso lontani dalla loro famiglia, vedono con poca costanza gli amici e al contempo devono gestire e assumersi la responsabilità di ogni aspetto della loro vita personale.

Ma che cosa guida questa scelta? Perché si sceglie una simile traiettoria professionale, e come ci si adatta nel tempo? La prima scoperta chiave di Cook è stata che – mentre la vita dei nomadi digitali è iniziata come un sogno nel cassetto – ha causato problemi e sfide inattese. Molti hanno deciso di diventare nomadi digitali perché non volevano affrontare il pendolarismo oppure non volevano fare vita da ufficio. Con il tempo, questi lavoratori però hanno finito per ricreare strutture e abitudini simili: hanno cercato spazi di co-working (per evitare l’isolamento) e hanno iniziato a effettuare brevi spostamenti ricorrenti.

La vera sfida per chi lavora da casa o più in generale in remoto è affrontare i compiti con disciplina, e senza le distrazioni che spesso ci arrivano proprio da quegli strumenti che servono per lavorare: laptop e smartphone. Avere disciplina significa innanzitutto avere il controllo sul tempo. Ecco perché una delle problematiche più comuni di questo periodo in quarantena è stata per molti lavoratori il non riuscire a creare orari di lavoro rigidi da auto-rispettare.

È chiaro che ogni caso è a sé. Alcune persone hanno la tendenza a essere abbastanza autodisciplinate di natura, e altre invece richiedono una struttura dall’esterno: avere l’imposizione di un orario di lavoro, dover timbrare il cartellino in ufficio, e così via. Ma dalla ricerca di Cook è emerso un altro dato interessante, ovvero che le coppie riescono a impostare meglio la routine in casa perché – anche se non lavorano sugli stessi progetti – hanno la possibilità di decidere pause comuni (pranzo, pausa caffè, cena) che scandiscono così meglio la giornata. Chi lavora completamente da solo in remoto, in effetti, puoi dimenticare i ritmi.

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