Cosa ci spinge a rappresentarci online? È solo un tema di narcisismo? Perché condividiamo la nostra vita, fino ad aspetti intimi come la genitorialità? E sui bambini, che racconto ne stiamo facendo? Come il Covid-19 ha trasformato le nostre relazioni? Abbiamo posto tutte queste domande alla psicologa e psicoterapeuta Floriana Maione, italiana che vive e lavora ad Amsterdam, con alle spalle parecchi anni di esperienza lavorativa, una formazione specialistica in terapia sistemico-relazionale e una formazione in mediazione familiare. Buona lettura e riflessioni.
Social media ed esposizione di sé: possiamo davvero solo confinare tutto sotto l’ombrello del narcisismo, o c’è dell’altro? Da esperta psicologa e psicoterapeuta relazionale, qual è la tua chiave di lettura?
È difficile rispondere a questa domanda in modo netto. Credo che l’uso che si fa dei social network dipenda molto da come si è strutturati psichicamente e da bisogni e motivazioni che ci muovono in quel preciso frammento temporale. Ad esempio, una persona che ha confini poco chiari potrebbe ritrovarsi a condividere “troppo” di sé, un po’ come potrebbe avvenire in altri contesti interpersonali. Questo potrebbe avere conseguenze spiacevoli da un punto di vista emotivo, potrebbe causare dei vissuti di auto svalutazione o di vergogna. Al contrario chi ha dei confini molto rigidi e fa quindi fatica a raccontare di sé e ad aprire finestre sul mondo potrebbe esitare, pensare e ripensare più volte se condividere o meno un determinato post, provando vissuti e dubbi simili ad una situazione relazionale dove si vorrebbe interagire ma appunto, si fa fatica a lasciar entrare l’atro perché si hanno confini molto rigidi.
Per quanto riguarda il narcisismo, sicuramente oggigiorno nella nostra cultura sembra essere scambiato o assimilato ad una forma di realizzazione di sé e quindi l’auto celebrazione di sé sembra essere quasi incoraggiata, specialmente nelle fasce d’età più giovani.
Per quello che riguarda invece l’esposizione dei più piccoli sui social, soprattutto neonati, e tutta la tematica dello sharenting: che cosa spinge i genitori a pubblicare i propri bimbi? Quali sono i possibili lati negativi?
Sicuramente oggigiorno esiste uno spazio molto accessibile ed invitante per condividere in modo immediato molti aspetti delle nostre vite e con il tempo condividere online è diventata un’abitudine presente e radicata nelle nostre vite. Potrebbe darsi che si condividono aspetti della genitorialità un po’ come si condividono altri aspetti della propria vita, ma anche per orgoglio, per gioia, per l’esigenza di sentirsi riconosciuti come “bravi genitori”, ma anche per sentirsi meno isolati in un compito molto difficile come quello di accudire un bambino.
I rischi per il benessere emotivo che possono esserci credo siano ancora in gran parte sconosciuti e credo che dipendano fortemente dall’intensità della condivisione e dal bacino di utenza raggiunta. Se il bambino è costantemente esposto, come si sentirà da adulto a riguardo? Che impatto avrà questo sulla propria vita e sulla propria identità? Rispetto al presente credo ci sia anche un’altra questione, ovvero che nell’utilizzo quotidiano dei social media spesso scegliamo di tralasciare e di allontanarci dall’ipotesi peggiore che possa accadere con le nostre foto, soprattuto se pubbliche: a chi arriverà questa foto? Raggiungeraà qualche malintenzionato? Sto esponendo me e/o i miei figli ad un pericolo? Credo che questo fenomeno sia più accentuato in un uso molto intenso dello “sharenting”, proprio perché spaventa ancora di più e può attivare meccanismi protettivi di negazione.
Nascono sempre più community legate a un racconto più autentico di genitorialità e quotidianità in famiglia, in reazione anche a tutti quei profili pettinati e in palette. Sarà che abbiamo bisogno di più “reale”?
Negli ultimi anni c’è sicuramente stato un grande cambiamento nell’uso dei social media. Si è arrivati lentamente a dare maggior spazio a narrative differenti, più autentiche e inclusive, inizialmente percepite come “fuori dal coro”, poi poco alla volta più normalizzate. E quindi ecco che sui social iniziano a comparire messaggi body positive, post sulle difficoltà emotive che a volte si incontrano, racconti delle proprie esperienze traumatiche e/o dolorose in rete.
In questo scenario suppongo si innesti anche un desiderio di avere uno scambio e un racconto più autentico della genitorialità.
Ci sono effetti, legati all’emergenza sanitaria, che hai osservato in questi mesi sull’approccio delle persone in Rete (e non)? E soprattutto sulle emozioni che esternano? Quali sono i tratti più caratteristici che rilevi?
L’emergenza sanitaria che viviamo ha avuto e continuerà ad avere un forte impatto su tutti noi a livello emotivo. Credo che lascerà profonde tracce in quanto è assimilabile a una ferita della collettività, un po’ come per un terremoto o un altro disastro naturale. Detto ciò, sicuramente mi sembra di percepire un forte senso di solitudine e di smarrimento, talvolta di dolore e di angoscia per il doversi confrontare di continuo con l’incertezza che stiamo attraversando, ma anche con la perdita e la morte. Questi ultimi sono aspetti che la cultura occidentale tende a rimuovere e che in un contesto come quello che stiamo vivendo riemergono in modo prepotente.
Accanto a questo aspetto di perdita però mi sembra di riscontrare, sia nella pratica clinica che in rete, anche un desiderio di vivere in modo più ricco e soddisfacente, di prendere appieno dalla vita e mi sembra di percepire spesso anche un cambio di priorità, rivalutando la vita affettiva e relazionale. Probabilmente tutto ciò rende sempre più difficile seguire le varie raccomandazioni e regole per arginare la pandemia.
Stiamo vivendo un contesto di forte crisi e se le crisi quasi sempre sono dolorose, spesso ci donano anche l’opportunità per una crescita personale e per rinnovare la relazione che abbiamo con noi stessi, rendendo possibile una riflessione su chi siamo e cosa per noi è importante, su quali sono i nostri valori, le nostre priorità e i nostri progetti futuri, quali sono le relazioni che desideriamo continuare a coltivare e quali preferiamo lasciare andare. Durante una crisi le nostre ferite e le nostre strategie di coping diventano più evidenti, tendono ad accentuarsi e quindi diventano più visibili e quando vediamo qualcosa possiamo anche iniziare a prendercene cura per riuscire a superarlo e per fare uno scatto evolutivo.
Le app di networking e quelle di dating hanno portato dei benefici? Finita l’emergenza sanitaria, abbandoneremo questi mezzi oppure continueremo a farne uso? Avremo più voglia di contatti fisico?
In un contesto dove quasi tutti gli aspetti della nostra socialità si sono spostati online -dal lavoro, agli aperitivi con gli amici via Zoom- è plausibile pensare che anche il flirt, il dating e il corteggiarsi avvengano per lo più online tramite le varie app. Credo che questo possa portare benefici e opportunità ma possa avere anche dei rischi, a seconda dell’uso che se ne fa. Qualcuno può sviluppare una dipendenza, qualcun altro può pensare che semplicemente interagire online sia sufficiente/equivalente a essere aperto a una relazione. Qualcun altro può scoraggiarsi e pensare che… non ci sia nulla da fare!
Non credo che finita l’emergenza sanitaria abbandoneremo questi mezzi, un po’ come non credo che abbandoneremo completamente lo smartworking. Mi auguro però che ci sia più voglia non solo di contatto fisico, ma anche di avere scambi significativi e di raccontarsi in modo autentico per toccarsi emotivamente, cambiare e crescere insieme all’altro. Mi auguro ci siano più opportunità, incontri ed esperienze per una riscoperta delle varie parti di sé.